
I dati deboli sul mercato del lavoro hanno determinato un cambio profondo nelle aspettative di politica monetaria. Per il prossimo meeting di settembre, le probabilità di un taglio, date prima al 50%, sono salite oltre l’80%.
La data cerchiata di rosso sul calendario è il 17 settembre. Lì si toccherà con mano la direzione della politica monetaria americana e si capirà se la Federal Reserve andrà incontro o meno alle incessanti richieste del presidente americano Donald Trump che, a gran voce, invoca un taglio dei tassi con l’obiettivo di sostenere il debito americano. Richieste che, col passare del tempo, sono diventate vere e proprie pressioni (Trump ha anche paventato un potenziale licenziamento anticipato del presidente della banca centrale americana Jerome Powell, poi rientrato) che hanno spaventato i mercati. L’assist per una possibile riduzione è arrivato dagli ultimi dati sull’occupazione Usa “che, mostrando un mercato del lavoro più deteriorato del previsto, hanno fatto salire le probabilità di un taglio oltre l’80% dal 50% delle scorse settimane. Ma la decisione è tutt’altro che scontata”, illustra Paolo Baldessari, Responsabile Gestioni Income & Alternative Strategies di Banca Generali.
Nel meeting del 30 luglio, la Fed ha deciso di mantenere invariati i tassi nell’intervallo 4,25 – 4,5%. Non è stata una decisione facile, in primo luogo per le forti pressioni del presidente Trump che continua a chiedere che i tassi vengano portati velocemente all’1%. “Ma anche all’interno del comitato che prende le decisioni di politica monetaria (FOMC) cominciano a emergere le prime spaccature. Due membri della Federal Reserve hanno infatti deciso di votare contro la decisione di mantenere i tassi invariati, rompendo una tradizione di unanimità che durava dal 1993”, ricorda l’esperto. Un altro membro ha poi deciso di rassegnare le dimissioni, ufficialmente per motivi personali. Secondo alcuni analisti, la scelta del sostituto potrebbe fornire indicazioni precise su chi andrà a sostituire l’attuale presidente Powell, il cui incarico terminerà a maggio del prossimo anno.
“Uno dei motivi citati da Powell per tenere i tassi fermi è la solidità del mercato del lavoro, che però è stata messa in seria discussione qualche giorno dopo la riunione della Fed”, prosegue Baldessari. Venerdì 1 agosto infatti, i dati sui “payrolls” americani hanno gelato i mercati, dipingendo un quadro di preoccupante rallentamento nella creazione di nuovi posti di lavoro. Sono stati in particolare rivisti al ribasso i dati di maggio e giugno, i mesi successivi allo shock dei dazi. Negli ultimi 3 mesi, i nuovi occupati sono saliti soltanto di 106.000 unità, un dato decisamente inferiore rispetto a quello inizialmente comunicato (380.000). Il dato sul lavoro segue quello sul PIL del secondo trimestre che, pur battendo le attese degli analisti, ha evidenziato come i consumi degli americani stiano crescendo a ritmi inferiori rispetto al passato.
“I dati deboli sul mercato del lavoro hanno determinato un cambio profondo nelle aspettative di politica monetaria. Per il prossimo meeting di settembre, le probabilità di un taglio, date prima al 50%, sono salite oltre l’80%”, afferma Baldessari. “Il rendimento del Treasury a due anni, quello più sensibile alle dinamiche della politica monetaria, è sceso in un giorno di 30 centesimi, ritoccando i minimi del 2025 al 3,6%. Anche se il mercato dà quindi quasi per certo che la Fed ricomincerà a tagliare i tassi a settembre, la decisione non è per nulla scontata”. Intanto perché il tasso di disoccupazione, al 4,2%, è ancora vicino ai minimi e difficilmente potrà risalire in modo significativo nei prossimi mesi visto che dal mercato del lavoro sono usciti 1,2 mln di stranieri per effetto delle politiche anti-immigrazione di Trump. “Rimane poi da vedere quali saranno gli impatti dei dazi sull’inflazione”, prosegue. “Con il primo di agosto entra in vigore un regime di dazi reciproci in cui tutti i paesi che hanno relazioni commerciali con gli Usa saranno soggetti a tariffe che variano da un minimo del 10% fino a oltre il 40%. Per il momento l’impatto sull’inflazione è stato piuttosto limitato anche se, per alcuni beni soggetti a dazi, si sono già cominciati a osservare i primi timidi rialzi. Secondo numerosi analisti, questi aumenti sono destinati a intensificarsi, con un’inflazione attorno al 4% nel terzo trimestre 2025”.
I dati deboli sul mercato del lavoro hanno determinato un cambio profondo nelle aspettative di politica monetaria. Per il prossimo meeting di settembre, le probabilità di un taglio, date prima al 50%, sono salite oltre l’80%.